Maya (induismo)

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Il [[Buddhismo  Mahāyāna]], propugnatore fin dai primi ''[[Prajñāpāramitāsūtra]]'' (I secolo a.C./I secolo d.C.) della dottrina dello ''[[śūnyatā]]'' ovvero della "vacuità" di proprietà inerente dei fenomeni (nulla esiste di per sé in quanto tutto è [[Anitya|impermanente]] e correlato agli altri fenomeni), intende la ''māyā'' come illusione del mondo fenomenico ovvero come realtà convenzionale (''vyāvahārika'') che nasconde la realtà assoluta (''pāramārtika'').
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Il [[Buddhismo  Mahāyāna]], propugnatore fin dai primi ''[[Prajñāpāramitāsūtra]]'' (I secolo a.C./I secolo d.C.) della dottrina dello ''[[sunyata|śūnyatā]]'' ovvero della "vacuità" di proprietà inerente dei fenomeni (nulla esiste di per sé in quanto tutto è [[Anitya|impermanente]] e correlato agli altri fenomeni), intende la ''māyā'' come illusione del mondo fenomenico ovvero come realtà convenzionale (''vyāvahārika'') che nasconde la realtà assoluta (''pāramārtika'').
==Il velo di Maya==
==Il velo di Maya==

Versione delle 11:54, 12 set 2011

Con il sostantivo femminile sanscrito māyā (in devanāgarī माया) si indicano in quella lingua diverse dottrine filosofiche e religiose originarie dell'India nonché, come nome proprio, la madre di Gautama Buddha o uno dei nomi della dea Lakṣmī.

Il significato originario di māyā è quello di "creazione" ma ha successivamente acquisito il significato di "illusione".

Indice

Origine del termine e suoi significati

Māyā possiede come significato originario quello di "creazione" indicando anche il relativo potere straordinario. Tale termine deriva dal verbo[1]sanscrito nell'accezione di "misurare", "distribuire", "foggiare", "ordinare", "costruire".

Nei Veda con il termine māyā si indica il potere da cui ha origine il mondo materiale. Questo potere è proprio dei deva e degli asura che lo utilizzano per trasformare una propria ideazione in una forma concreta, attenta ed efficiente come suggerisce il termine italiano "arte"[2].

Nel Ṛgveda (XV/X secolo a.C.), mediante māyā Varuṇa misura e distribuisce la terra ordinando il mondo fisico:

« Io voglio celebrare questa grande forza misteriosa di Varuṇa, l'illustre che, collocandosi in piedi nello spazio mediano, ha misurato da un capo all'altro la terra come il sole come se fosse un metro. »

Ṛgveda V, 85,5. Traduzione di Saverio Sani in Ṛgveda, Venezia, Marsilio, 2000, pag. 147

Sempre nel Ṛgveda Indra usa la māyā per cambiare il proprio aspetto fenomenico:

« Con i poteri della propria māyā Indra si presenta in differenti forme »

Ṛgveda VI, 47,18

Con la riflessione teologica e filosofica posteriore ai Veda, in particolare quella delle Upaniṣad (IX/VIII secolo a.C.) si avvia l'intuizione che la realtà fenomenica per sua natura differenziata, proceda da una singola realtà assoluta identificata come Brahman:

Così, ad esempio, il Samāvidhāna Brāhmaṇa:

« In origine vi era il Brahman soltanto; poiché il succo della sua forza si espandeva, divenne Brahmā. Brahmā meditò in silenzio con la mente e la sua mente divenne Prajāpati »

Samāvidhāna Brāhmaṇa (I,1,3)

« "Come è mai, o venerabile, questo insegnamento?". "O caro, come da una zolla d'argilla si conosce tutto ciò che è fatto d'argilla: la forma particolare è questione di parole, è un nome, la realtà è una sola, l'argilla; “o caro, come da una palla di rame si conosce tutto ciò che è fatto di rame: la forma particolare è questione di parole, è un nome, la realtà è una sola, il rame; "o caro, come da un temperino per unghie si conosce tutto ciò che è fatto di ferro: la forma particolare è questione di parole, è un nome, la realtà è una sola, il ferro - così, o caro, è questo insegnamento" »

Chāndogya Upaniṣad VI,1,4-6. Traduzione di Carlo Della Casa in Upaniṣad, Torino, Utet, 1983, pagg. 241-2

Ne consegue che le differenti forme fenomeniche (meya) prodotte dall'attività creatrice dei deva, ovvero da māyā, sono quindi solo illusioni: māyā.

Nella Śvetāśvatara Upaniṣad, appartenente al Kṛṣṇa Yajurveda (Yajurveda nero), una Upaniṣad vedica piuttosto tarda, coeva o di poco precedente al Buddhismo e comunque antesignana dello Induismo, l'attività della māyā è propria del grande Signore (maheśvaraṃ) imperituro.

« Strofe, offerte, sacrifici, voti, passato, futuro, ciò che dicono i Veda: da ciò il mago (māyin) crea tutto questo universo e in ciò l'altro (l'anima individuale) è tenuto dai lacci dell'illusione (māyā). Bisogna dunque sapere che l'illusione è la natura e il grande Signore (maheśvaraṃ) è il mago. Tutto questo mondo è compenetrato di entità che sono particelle di lui »

Śvetāśvatara Upaniṣad IV, 9-10. Traduzione di Carlo Della Casa in Upaniṣad, Torino, Utet, 1983, pag. 408

Il Buddhismo Mahāyāna, propugnatore fin dai primi Prajñāpāramitāsūtra (I secolo a.C./I secolo d.C.) della dottrina dello śūnyatā ovvero della "vacuità" di proprietà inerente dei fenomeni (nulla esiste di per sé in quanto tutto è impermanente e correlato agli altri fenomeni), intende la māyā come illusione del mondo fenomenico ovvero come realtà convenzionale (vyāvahārika) che nasconde la realtà assoluta (pāramārtika).

Il velo di Maya

Con l'espressione Velo di Maya, coniata da Arthur Schopenhauer nel suo Il mondo come volontà e rappresentazione, si intendono diversi concetti metafisici e gnoseologici propri della religione e della cultura induista e ripresi successivamente anche da vari filosofi moderni. Arthur Schopenhauer nella propria filosofia sostiene che la vita è sogno sebbene questo "sognare" sia innato (quindi la nostra unica "realtà") e obbedisca a precise regole, valide per tutti e insite nei nostri schemi conoscitivi.

Questo «velo», di natura metafisica e illusoria, separando gli esseri individuali dalla conoscenza/percezione della realtà (se non sfocata e alterata), impedisce loro di ottenere moksha (cioè la liberazione spirituale) tenendoli così imprigionati nel samsara ovverosia il continuo ciclo delle morti e delle rinascite. Similmente alla metafora della caverna di Platone, l'uomo (e quindi l'intera umanità) è presentato come un individuo i cui occhi sono coperti dalla nascita da un velo, liberandosi dal quale l'anima si risveglierà dal letargo conoscitivo (o avidyã, ignoranza metafisica) e potrà contemplare finalmente la vera essenza della realtà.

Le numerose ed eterogenee correnti induiste attribuiscono significati e funzioni differenti a questo concetto: le correnti dualistiche (come ad esempio gli Hare Krishna) la interpretano come il «velo» che separa l'essere individuale dal riscoprire la propria relazione con Dio, che essi identificano con Krishna; mentre presso le scuole moniste (come, ad esempio, l'Advaita Vedānta) questo «velo» è rappresentato dall'identificazione con il corpo, con la mente, con l'intelletto e con la propria stessa individualità, il senso dell'io (ahamkara), ovvero tutto ciò che ricopre e riveste l'Ātman (unica entità eterna ed immortale), impedendo di riconoscere la propria identificazione con esso ed illudendo così l'anima individuale di essere un individuo distinto dal tutto.

Note

  1. Classe 2, parasmaipadam (attivo).
  2. Template:Q

Voci correlate

Collegamenti esterni

http://www.buddhism.it/science/ologram.shtml

http://camcris.altervista.org/buddismo.html

http://www.menphis75.com/riferimenti_religiosi.htm

http://www.sviluppocoscienza.it/evan.htm

http://www.anticorpi.info/2011/08/gnosticismo-e-buddismo-in-matrix.html

http://www.quantumedicine.com/article/nuovofile246.html

http://www.atuttascuola.it/collaborazione/angelotti/luigi_pirandello.htmù

http://laveritaeilluogo.blogspot.com/2009/12/illusione-e-buddhismo.html

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