Mitologia sumera

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===La creazione dell'uomo===
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Gli dei trovano difficoltà a procurarsi il cibo, quindi decidono di lamentarsi presso [[Enki]], dio dell'acqua ma anche dio della saggezza. Ma egli giace profondamente addormentato sul mare e non sente le loro lamentele. Allora [[Nammu]], madre di [[Enki]], si fa portavoce e gli comunica il loro problema. Gli dice di creare dei "servi" che possano svolgere i lavori che gli dei non sono in grado di fare. [[Enki]] riflette, e consiglia quindi alla madre di creare delle forme  con l'argilla dell'Abisso (l'[[Abzu]]), e di imprimere su di esse l'immagine degli dei: queste forme saranno chiamate "uomini".<br/>Per festeggiare questa decisione, gli dei organizzano un banchetto, durante il quale [[Enki]] e Ninmah, dea del parto, si ubriacano e perdono lucidità. Ninmah prende quindi un po' di argilla dell'Abisso, e con essa forgia sei individui anormali. [[Enki]] finisce l'opera decretando il loro destino, e dando loro da mangiare del pane. Sulle imperfezioni dei primi quattro non si hanno notizie, mentre gli ultimi due sono una femmina incapace di procreare ed un essere asessuato. Il destino della prima è quello di dimorare nel [[gineceo]], quello del secondo di "camminare davanti al re".<br/>[[Enki]] comunque non vuole essere da meno della dea Ninmah, e a sua volta forgia una creatura (non sappiamo in che modo). L'essere da lui creato è in qualche modo inanimato, debole di corpo e di spirito. Gli si offre del pane, ma lui non tende la mano per riceverlo, gli si parla ma lui non risponde; non riesce a stare in piedi, né seduto, né riesce a piegare le ginocchia. [[Enki]] Chiede quindi a Ninmah di dare in qualche modo un aiuto a questa creatura, ma nemmeno la dea è in grado di fare qualcosa. Ne segue una lunga discussione tra i due dei, molto lacunosa e quindi difficilmente comprensibile, ma pare che Ninmah maledica [[Enki]] per la sua incoscienza nel creare un essere così miserevole, e sembra che il dio finisca col pensare che la maledizione sia meritata.<br/>In questo poema risulta evidente la concezione sumera dell'uomo come servo degli dei, inoltre cerca di spiegare le imperfezioni umane, attribuendole al fatto che gli uomini furono creati dagli dei ottenebrati dall'alcol.
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Gli dei trovano difficoltà a procurarsi il cibo, quindi decidono di lamentarsi presso [[Enki]], dio dell'acqua ma anche dio della saggezza. Ma egli giace profondamente addormentato sul mare e non sente le loro lamentele. Allora [[Nammu]], madre di [[Enki]], si fa portavoce e gli comunica il loro problema. Gli dice di creare dei "servi" che possano svolgere i lavori che gli dei non sono in grado di fare. [[Enki]] riflette, e consiglia quindi alla madre di creare delle forme  con l'argilla dell'Abisso (l'[[Abzu]]), e di imprimere su di esse l'immagine degli dei: queste forme saranno chiamate "uomini".<br/>Per festeggiare questa decisione, gli dei organizzano un banchetto, durante il quale [[Enki]] e Ninmah, dea del parto, si ubriacano e perdono lucidità. Ninmah prende quindi un po' di argilla dell'Abisso, e con essa forgia sei individui anormali. [[Enki]] finisce l'opera decretando il loro destino, e dando loro da mangiare del pane. Sulle imperfezioni dei primi quattro non si hanno notizie, mentre gli ultimi due sono una femmina incapace di procreare ed un essere asessuato. Il destino della prima è quello di dimorare nel gineceo, quello del secondo di "camminare davanti al re".<br/>[[Enki]] comunque non vuole essere da meno della dea Ninmah, e a sua volta forgia una creatura (non sappiamo in che modo). L'essere da lui creato è in qualche modo inanimato, debole di corpo e di spirito. Gli si offre del pane, ma lui non tende la mano per riceverlo, gli si parla ma lui non risponde; non riesce a stare in piedi, né seduto, né riesce a piegare le ginocchia. [[Enki]] Chiede quindi a Ninmah di dare in qualche modo un aiuto a questa creatura, ma nemmeno la dea è in grado di fare qualcosa. Ne segue una lunga discussione tra i due dei, molto lacunosa e quindi difficilmente comprensibile, ma pare che Ninmah maledica [[Enki]] per la sua incoscienza nel creare un essere così miserevole, e sembra che il dio finisca col pensare che la maledizione sia meritata.<br/>In questo poema risulta evidente la concezione sumera dell'uomo come servo degli dei, inoltre cerca di spiegare le imperfezioni umane, attribuendole al fatto che gli uomini furono creati dagli dei ottenebrati dall'alcol.
===Inanna e Shukallituda===
===Inanna e Shukallituda===

Versione delle 22:28, 27 dic 2008

Per accostarsi correttamente alla mitologia sumera, occorre avere ben presente quale fosse la concezione che i sumeri avevano della vita stessa. Si tratta di uno dei più antichi popoli, il popolo che fissò per primo la sfera delle idee morali e delle concezioni religiose, che per primo creò delle leggi (il Codice di Ur-Nammu fu redatto quasi tre secoli prima del Codice di Hammurabi), e soprattutto il popolo che per primo inventò la scrittura, ovvero una serie di simboli scritti (o meglio incisi) che avessero corrispondenza con le idee pronunciate, dando così inizio a quella che chiamiamo storia e alla prima letteratura.

Il percorso che ci ha portato alla quasi completa comprensione della cultura sumera è stato lungo e tortuoso, spesso fuorviante, sicuramente complicato anche dalla differenza concettuale tra la nostra scrittura a lettere e la loro particolare scrittura, chiamata cuneiforme dalla forma appunto a cuneo dei caratteri utilizzati. È opportuno precisare che, concettualmente, la scrittura sumera è molto simile a quella cinese o giapponese: un ideogramma, o un cuneo nel caso sumero, poteva indicare non un solo oggetto, ma altri oggetti, idee o gesti correlati allo stesso. Ad esempio, il simbolo designato per indicare la parola "bocca", che ha una determinata pronuncia, poteva essere utilizzato in altri contesti, e con pronunce diverse, per indicare la sfera di concetti legati alla bocca: "parlare", "dente", "parola" e via dicendo. Questo fece cadere in errore i primi sumerologi, quando scoprirono le tavolette che descrivevano l'Epopea di Gilgamesh, re di Uruk: la prima traslitterazione del nome "Gilgamesh" fu infatti "Izdubar", errore che in seguito venne notato e corretto. Questo non è che un esempio delle difficoltà che gli studiosi incontrarono nel catalogare e tradurre le tavole di Sumer.

Man mano che gli studi procedevano si scopriva un mondo fatto di uomini, eroi e dei (gli Annunaki) strettamente legati gli uni e gli altri ed alla natura stessa. Ai giorni nostri ancora si discute se la mitologia sia un insieme di semplici favole, oppure un tentativo di spiegare i fenomeni naturali, oppure un insegnamento morale nato dalla coscienza collettiva di un popolo; per quanto riguarda i sumeri, tutte queste congetture sono probabilmente da ritenersi ugualmente valide.
La civiltà sumera si è sviluppata intorno al 5.000 a.C., quando il mondo era giovane e l'uomo aveva appena preso coscienza di sé e della propria collettività. Ci si può basare sui fatti, senza dubbio, ma la sociologia e l'antropologia ci vengono in aiuto nella comprensione di un popolo ormai scomparso. E queste scienze, insieme alle ottime traduzioni dei testi in nostro possesso, ci presentano un mondo in cui l'uomo non è completamente padrone del proprio destino: ovverosia, lo è nel momento in cui si rende consapevole del fatto che si trova sulla Terra con il solo ed unico scopo di servire gli dei. Egli non è ancora l'homo faber dei latini, e la morte è l'unica sorte che lo aspetta: solo gli dei sono immortali, e questa è la legge ineluttabile della vita.

Questi dei non sono entità astratte e non sono nemmeno i fenomeni naturali chiamati con nomi pittoreschi: le divinità sumere sono entità concrete e strettamente correlate alla natura di cui anche l'uomo fa parte, ognuna è naturalmente preposta ad un evento (la morte, la primavera) o ad un concetto (la creazione, la fecondità) ma come gli dei greci, anzi più degli dei greci, dipendono in tutto e per tutto dagli esseri umani, che rappresentano la natura consapevole di sé stessa.
Insomma, gli uomini esistono con l'unico scopo di servire e compiacere gli dei, e di conseguenza gli stessi dei hanno ragione di esistere solo grazie agli esseri umani. In questo modo risulta evidente la stretta relazione che nella società sumera sussiste tra la vita quotidiana e reale e la mitologia. Alcuni studiosi come Zecharia Sitchin si sono addirittura spinti a considerare la mitologia sumerica non religione, ma storia: cioè una narrazione piana e fedele di fatti realmente avvenuti.

Ne viene così il ritratto di un popolo forte e fiero, un popolo che cerca il significato di un mondo che non conosce traformandolo in poesia, e contemporaneamente ne osserva lo sviluppo e i misteri con occhio scientifico; che trascorre le giornate pensando di compiacere gli dei e getta intanto le basi per le civiltà future. Non bisogna infatti dimenticare che i sumeri erano prima di tutto un popolo in continuo perfezionamento, che la scrittura sumera presenta una grammatica molto avanzata, che tra i sumeri esistevano matematici e astronomi che elaboravano problemi e relative soluzioni, e scienziati che catalogavano fiori, pietre, insetti e animali.

La mitologia sumera rappresenta senz'altro un punto imprescindibile per comprendere le contraddizioni e l'animo estremamente poetico dei sumeri, una civiltà dotata di profondissima sensibilità e di inestinguibile sete di conoscenza, che lasciò tracce indelebili in tutte le culture coeve e successive.

Indice

La cosmogonia

In principio vi era il Mare Primordiale (Nammu), probabilmente mai creato, e quindi eterno. Dal Mare ebbe origine la Montagna Cosmica, che aveva per base gli strati più bassi della terra, e per cima la sommità del cielo. La Montagna era formata da Cielo e Terra, ancora uniti insieme e non distinti. Il Cielo, nella personificazione il dio An, e la Terra, nella personificazione la dea Ki, generarono il dio dell'Aria Enlil. A questo punto avvenne la separazione: An "tirò" il Cielo verso di sé, mentre Enlil "tirava" la Terra, sua madre. Dall'unione di Enlil e Ki nacquero tutti gli esseri viventi, dei, uomini, animali e piante.

Inoltre, i sumeri introdussero il concetto di Me. L'esatto significato di questa idea non è ancora chiaro, ma pare che definisse la capacità delle cose create di mantenersi in esistenza ed in moto continuo (capacità assegnata loro dagli dei).

La cosmologia

Cosmologia sumera

I sumeri consideravano l'universo visibile sotto forma di una semisfera, avente per base la Terra e per calotta il Cielo (An-Ki). La Terra era un disco piatto circondato dal mare (Abzu) e galleggiante su di esso. Al di sotto della terra stava un'altra semisfera diametralmente opposta a quella del cielo, non visibile, che conteneva le regioni infernali (Kur). Dunque, l'universo in generale era una sfera, divisa in due orizzontalmente dal piano diametrale costituito dalla terra. Da alcuni frammenti pare che i sumeri considerassero il cielo formato di un qualche metallo dai riflessi bluastri (questa credenza dipendeva probabilmente dal fatto che i meteoriti sono composti soprattutto di ferro e nichel quasi puri: il ferro siderale fu l'unica fonte di ferro metallurgico puro dell'antichità). Tra il Cielo e la Terra esisteva un terzo elemento, una sorta di "vento", o "soffio" (lil), le cui caratteristiche erano l'espansione e il moto (caratteristiche che noi oggi consideriamo proprie dell'atmosfera). Gli elementi cosmici come Sole, Luna e stelle si ritenevano composti della stessa materia, ma in questo caso luminosa.
All'esterno della sfera dell'universo si stendeva all'infinito un Oceano Cosmico, un Mare primordiale misterioso ed invisibile.

Gli dei e gli eroi

I sumeri riflettevano il loro proprio modo di vita anche nella raffigurazione delle vicende divine. Di conseguenza, si raffiguravano un'assemblea di dei (equivalente alle assemblee degli uomini) presieduta da un re, ovvero il principale dio creatore. L'assemblea degli Anunnaki (così erano chiamati gli dei, "i figli di An") si componeva di sette supremi (compresi i quattro dei creatori) con il compito di decidere i destini di uomini e dei, e di 50 dei minori, chiamati "grandi dei".
Essi risiedevano in un non ben precisato luogo al di sopra della Montagna Cosmica, "nel luogo dove spunta il sole".

I quattro dei creatori erano riconosciuti in An, Enlil, Enki e Ki/Ninhursag, corrispondenti ai quattro princìpi creatori Cielo, Aria, Acqua e Terra.
Inizialmente fu il dio del cielo An a sostenere il ruolo di dio principale, ma poco alla volta venne, nell'immaginario collettivo, sostituito da Enlil, il dio dell'aria. Non si sa con certezza quale fu il processo che lo portò ad essere il dio più importante del pantheon sumerico, ma si suppone che il motivo possa essere la sua identificazione con "il soffio", il "principio" vitale che dà al mondo vita e lo mantiene in costante divenire.
Seguiva, nell'elencazione dei quattro dei principali, il dio Enki, signore dell'oceano e dell'Abisso (Abzu). Ultima era la dea Ninhursag, in origine chiamata Ki, la Terra. Era detta anche Nintu, cioè "colei che partorisce", ed era considerata la madre di tutti gli esseri viventi.
La particella nin che compone il nome delle dee, significa "Signora", e lo stesso significato ha la particella en per gli dei maschi, che significa "Signore, sovrano". Questo sottolinea l'importanza o meno di alcune divinità. La particella an, come si è visto, significa cielo, e definisce il legame più o meno stretto che alcuni dei hanno con lo stesso dio An, oppure con il cielo fisico.

Frammenti

Per meglio comprendere la mitologia sumera, è opportuno conoscere alcuni degli episodi che la compongono. Poiché le tavolette su cui tali episodi sono incisi sono spesso illeggibili o lacunose in certi punti, non sempre la storia presenta il carattere consequenziale a cui siamo abituati, oppure, non sempre ne conosciamo l'inizio o la fine.
I titoli, inesistenti nelle versioni originali (da quanto ne sappiamo), sono stati dati con lo scopo di definire l'argomento trattato dalla narrazione, e sono pertanto arbitrari.
Sarà possibile notare, nei frammenti che seguono, alcune somiglianze con miti e religioni successive.

Enlil e Ninlil

Quando l'uomo non era ancora stato creato, la città di Nippur era dimora del dio Enlil, della dea Ninlil e di Nunbarshegunu, la madre di lei. Quest'ultima decise di maritare la figlia al dio Enlil e un giorno le disse di bagnarsi nel ruscello Nunbirdu, in modo che il Padre Enlil potesse accorgersi di lei. Così avvenne, ma Ninlil non si sentì pronta a cedere alle attenzioni del dio ("le mie labbra sono troppo piccole, non conoscono i baci"). Enlil allora, consigliato dal suo visir Nusku, invitò la dea ad un giro in barca ed abusò di lei. In quell'istante venne concepito il dio-luna Sin.
Gli dei si indignarono per tale comportamento ed intimarono ad Enlil di allontanarsi dalla città. Il dio obbedì, dirigendosi verso gli inferi (Kur). Allora Ninlil, incinta, decise di seguirlo nel suo destino, ma Enlil pensò che in questo modo suo figlio, destinato a dimorare nel cielo, sarebbe invece stato costretto a vivere nelle viscere delle regioni infernali. Ideò allora uno stratagemma: poiché sulla strada per gli inferi vi erano tre dei minori che il viandante doveva incontrare (il guardiano delle porte dell'inferno, l'uomo del fiume dell'inferno e l'uomo della barca), Enlil decise di assumere di volta in volta le sembianze di questi tre personaggi, fecondando Ninlil di tre divinità infernali in modo che sostituissero il figlio Sin agli inferi.
In questo racconto compare per la prima volta un esempio di metamorfosi divina.

Enki e Ninhursag, o il paradiso terrestre

Nel paese di Dilmun (oggi in Bahrain) non esitono malattie, né morte. Gli dei decidono quindi di creare qui il loro paradiso. Tuttavia, a Dilmun manca l'acqua dolce, indispensabile alla vita degli animali e delle piante. Allora Enki, dio dell'acqua, chiede al dio del sole Utu di far scaturire l'acqua dal suolo perché possa irrigare la terra. Dilmun diventa quindi un lussureggiante giardino, in cui Ninhursag, dea-madre, mette al mondo tre generazioni di dee, operazione in cui è aiutata da Enki che feconda le figlie di Ninhursag. Questo punto, nonostante la sua apparente laboriosità, è molto importante, poiché il poema sottolinea le gravidanze delle dee, insistendo sul fatto che i parti furono indolori. Dopo aver dato vita alle dee, Ninhursag, fa spuntare otto piante; Enki è curioso di assaggiarne i frutti, e li fa cogliere dal suo messaggero Isimud. Il dio quindi le mangia in successione, ma questo fa scaturire la collera di Ninhursag, che lo maledice e lo destina alla morte, e, per non incorrere in un ripensamento, scompare. Enki inizia quindi ad accusare malanni e malattie in tutto il corpo, e nessuno degli altri dei riesce ad aiutarlo. La parte seguente, piuttosto lacunosa, racconta di come una volpe si offra di ricondurre Ninhursag a più miti consigli, naturalmente dietro compenso. Enki accetta, e la volpe (non sappiamo come) riesce a riportare la dea presso Enki. Ninhursag crea allora tante divinità quante sono le malattie di Enki in modo che possano guarirlo.
In questo poema paiono evidenti molti parallelismi con la Genesi biblica. Il più sorprendente fu scoperto dal sumerologo Samuel Noah Kramer: la dea che Ninhursag crea per guarire una costola di Enki è chiamata Ninti. In sumero, la parola ti indica sia "costola" sia "vita, far vivere"; di conseguenza, i sumeri arrivarono ad identificare la dea Ninti, "Signora della costola", con "colei cha fa vivere" (ossia, per traslazione, la madre; la Eva bibilica fu la prima madre degli uomini). Questo gioco di parole passò poi nella Bibbia, dove però perse significato, poiché in ebraico le due parole "costola " e "vita" sono diverse tra loro.

Emesh ed Enten

Il dio dell'Aria Enlil decide di fare di Sumer un paese rigoglioso, quindi di far spuntare tutte le possibili specie di alberi e piante. A questo scopo crea Emesh, dio dell'estate, ed Enten, dio dell'inverno, e ad ognuno assegna i propri compiti: Enten, il "Fattore degli dei", fa sì che il bestiame partorisca, che gli uccelli costruiscano nidi, che i pesci depongano le uova, che gli alberi producano frutti e via dicendo. Emesh invece regola la crescita delle messi, la costruzione di case e città, fa crescere gli alberi e la vegetazione.
Assolti i loro compiti, i due fratelli decidono di recarsi dal padre Enlil a presentare le loro offerte. Emesh reca con sé alcuni animali domestici e selvatici, uccelli e piante, mentre Enten porta metalli, alberi, pietre preziose e pesci. Giunti dinanzi alla dimora di Enlil, Enten attacca briga con Emesh, del quale è geloso. Irritato dalla discussione, Emesh arriva a contestare ad Enten il suo titolo di "Fattore degli dei". I due fratelli, sempre litigando, arrivano alla presenza di Enlil, e dopo aver presentato le loro offerte, espongono il caso al padre.
Mentre Enten si lamenta di essere stato insultato nonostante il suo ottimo lavoro, Emesh si lancia in frasi lusinghiere nei confronti di Enlil (questa parte ci risulta finora incomprensibile) con l'intento di aggiudicarsene il favore. Ma Enlil dà il suo appoggio ad Enten, e lo riconferma "Fattore degli dei". Finalmente i due fratelli si riconciliano, Emesh si inginocchia davanti al fratello rivolgendogli una preghiera (in segno di rispetto), e dopo aver diviso con lui miele e vino, gli dona oro, argento e lapislazzuli. Il poema si conclude piuttosto bruscamente (a causa di alcune lacune) con la formula finale "Padre Enlil, che tu sia glorificato!".

La creazione dell'uomo

Gli dei trovano difficoltà a procurarsi il cibo, quindi decidono di lamentarsi presso Enki, dio dell'acqua ma anche dio della saggezza. Ma egli giace profondamente addormentato sul mare e non sente le loro lamentele. Allora Nammu, madre di Enki, si fa portavoce e gli comunica il loro problema. Gli dice di creare dei "servi" che possano svolgere i lavori che gli dei non sono in grado di fare. Enki riflette, e consiglia quindi alla madre di creare delle forme con l'argilla dell'Abisso (l'Abzu), e di imprimere su di esse l'immagine degli dei: queste forme saranno chiamate "uomini".
Per festeggiare questa decisione, gli dei organizzano un banchetto, durante il quale Enki e Ninmah, dea del parto, si ubriacano e perdono lucidità. Ninmah prende quindi un po' di argilla dell'Abisso, e con essa forgia sei individui anormali. Enki finisce l'opera decretando il loro destino, e dando loro da mangiare del pane. Sulle imperfezioni dei primi quattro non si hanno notizie, mentre gli ultimi due sono una femmina incapace di procreare ed un essere asessuato. Il destino della prima è quello di dimorare nel gineceo, quello del secondo di "camminare davanti al re".
Enki comunque non vuole essere da meno della dea Ninmah, e a sua volta forgia una creatura (non sappiamo in che modo). L'essere da lui creato è in qualche modo inanimato, debole di corpo e di spirito. Gli si offre del pane, ma lui non tende la mano per riceverlo, gli si parla ma lui non risponde; non riesce a stare in piedi, né seduto, né riesce a piegare le ginocchia. Enki Chiede quindi a Ninmah di dare in qualche modo un aiuto a questa creatura, ma nemmeno la dea è in grado di fare qualcosa. Ne segue una lunga discussione tra i due dei, molto lacunosa e quindi difficilmente comprensibile, ma pare che Ninmah maledica Enki per la sua incoscienza nel creare un essere così miserevole, e sembra che il dio finisca col pensare che la maledizione sia meritata.
In questo poema risulta evidente la concezione sumera dell'uomo come servo degli dei, inoltre cerca di spiegare le imperfezioni umane, attribuendole al fatto che gli uomini furono creati dagli dei ottenebrati dall'alcol.

Inanna e Shukallituda

La narrazione inizia raccontando i vani sforzi del giardiniere Shukallituda nell'ottenere un lussureggiante giardino. Nonostante egli irrigasse costantemente e desse tutto il suo tempo alla cura del giardino, quest'ultimo continuava a restare secco ed arido. Egli allora si mise a studiare i presagi del cielo, ed imparò così a conoscere le Leggi degli dei. Piantò dunque nel proprio giardino degli alberi (sarbatu), alla cui ombra la vegetazione iniziò a crescere e prosperare.
Avvenne un giorno che la dea Inanna, dopo aver percorso il cielo e la terra, decise di riposare proprio vicino al giardino di Shukallituda. Egli la spiò dal limitare del giardino, attese la notte, e con il favore delle tenebre (ed aiutato dall'estrema stanchezza della dea) abusò di lei. Allo spuntare del sole, Inanna, guardandosi attorno, si accorse dell'oltraggio subìto. Accecata dall'ira e dalla volontà di vendetta, per scoprire chi fosse stato il colpevole, scaglió su Sumer tre flagelli: il primo riempì di sangue i pozzi del paese; il secondo devastò il territorio con venti ed uragani; del terzo nulla sappiamo, poiché la tavoletta è spezzata.
Sappiamo comunque che Shukallituda, consigliato dal padre, raggiunse il paese dei sumeri, sfuggendo così alla vendetta della dea. Intanto Inanna, non riuscendo a scoprire chi fosse il mortale che osò oltraggiarla, decise di recarsi a chiedere consiglio presso Enki.
Così si conclude per noi questo poema.

Bibliografia

Voci correlate

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