Rovine sommerse di Cuba
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Versione delle 20:57, 24 gen 2012
Le rovine sommerse al largo di Cuba. Il 28 maggio 2002, in un articolo pubblicato online sul sito ufficiale del National Geographic dal titolo “Nuove scoperte subacquee sollevano domande sui miti del diluvio”, il reporter Brian Handwerk scrive che “…recenti ritrovamenti subacquei potrebbero portare nuovi indizi allo studio di insediamenti umani che giacciono sotto le onde…”; a cosa si stava riferendo?A quella che probabilmente potremmo definire, senza paura di essere smentiti, la più grande scoperta archeologica di inizio millennio.
Handwerk descrive la scoperta ed il contesto: “Nel profondo delle acque di Cabo de San Antonio, lontano dalle coste di Cuba, ricercatori stanno esplorando formazioni insolite di lisci blocchi, pennacchi e forme geometriche”. Seppur interessante, fin qui la notizia non sembra così straordinaria; continuando nell’articolo però, si legge qualche cosa di veramente sorprendente riguardante quelle formazioni insolite, soprattutto perchè indicato da una fonte così allineata all’archeologia ufficiale come il National Geographic: “Le strutture sono coperte da 600 a 750 metri di acqua”.
La posizione del sito (il quadrato indicato con la scritta “Mega”) a nord della punta cubana di Capo Sant’Antonio.
La storia di questo sorprendente ritrovamento ha inizio nel luglio del 2000 quando i canadesi Paulina Zelitsky, ingegnere russa assegnata allo spionaggio sottomarino durante la guerra fredda, e suo marito Paul Weinzweig, ricercatori della “Advanced Digital Communications” (ADC) che ha sedi in Canada ed a Cuba, a bordo del loro vascello di ricerca “Ulises”, stavano esplorando i fondali al largo di Capo Sant’Antonio a nord ovest di Cuba in cerca di relitti da recuperare, attività che li aveva già resi famosi (e discretamente ricchi). Muniti, come è logico, di sofisticatissimi sistemi di rilevamento e monitoraggio del fondale, incontrarono una strana ed ampia area pressoché piana (pendenza massima = 6 gradi) di circa 20 chilometri di lato, ricoperta da una spessa coltre di pura sabbia bianca, dal centro della quale però qualcosa faceva “impazzire” il sonar; l’esperienza di Zelitsky e Weinzweig sull’analisi di questi tracciati suggerì una conclusione veramente incredibile, soprattutto ad una tale profondità: avevano localizzato strutture megalitiche, apparentemente di pietra, dalle chiare forme geometriche di piramidi o rettangoli, alcune organizzate simmetricamente e perfettamente allineate. E poi strade, muri e costruzioni sviluppate come un centro urbano.
A seguito di un tale rilevamento, misterioso ma allo stesso tempo intrigante, l’ovvio e legittimo obiettivo successivo sarebbe stato quello di vedere con i propri occhi ciò che si trovava là sotto e, possibilmente, prelevare dei campioni. A questo scopo, nel luglio 2001, i coniugi esploratori canadesi scelsero di avvalersi di un ROV (Remotely Operated Vehicle), un robot teleguidato per esplorazioni ad elevate profondità in grado di riprendere immagini e di raccogliere campioni di roccia dal fondale; oltre all’aiuto della tecnologia, Zelitsky e Weinzweig decisero di farsi accompagnare anche da esperti studiosi Cubani, tra i quali il dott. Manuel Iturralde, geologo ricercatore del Museo di storia Naturale di Havana che manifestò sin dall’inizio un profondo interesse verso le allora presunte rovine sommerse.
I risultati delle riprese furono ancora più esaltanti dei rilevamenti sonar e confermarono le ipotesi più ardite avanzate sulle caratteristiche delle strutture: le telecamere certificarono la presenza di grossi blocchi di pietra alti fino ad oltre tre metri, alcuni rettangolari, altri circolari, altri ancora piramidali; molti blocchi erano uno sopra l’altro, altri isolati.
Ma le sorprese non erano ancora finite: osservando i filmati, infatti, si notava che il colore bianco chiaro dei megaliti era in netto contrasto con quello scuro delle rocce vulcaniche tipiche di quei fondali, così come la loro superficie piana lo era rispetto a quella irregolare delle rocce locali; questo fatto fece pensare alla possibilità remota che quei megaliti fossero di granito, una pietra introvabile non solo sull’isola di Cuba ma addirittura in tutta l’area della penisola dello Yucatan (luoghi in cui si possono trovare per lo più rocce vulcaniche e calcaree), ma presente nella parte centrale del Messico.
Una volta analizzati i campioni prelevati dal fondale e a conferma di quanto inizialmente si riteneva impossibile, si configurò una clamorosa scoperta: non solo i campioni si rivelarono essere di granito puro e completamente levigato ma, in certi casi, erano ricoperti da incrostazioni di fossili organici che normalmente vivono vicino alla superficie. Come se non bastassero questi elementi (propri delle strutture), ad infittire il mistero contribuì anche l’area di 20 km quadrati attorno ai megaliti: si scoprì infatti che questa era ricoperta da vetro vulcanico, il quale “può essere generato esclusivamente su una superficie ossigenata”, come ammise Iturralde.
“Sono strutture veramente uniche. Non sono facili da comprendere e non ho per loro alcuna semplice spiegazione in un processo geologico naturale”. Questa è la frase che forse più di tutte chiarisce l’opinione di Iturralde in merito alle strutture sommerse di Cuba.
Dopo le analisi dei campioni e delle immagini relative alle spedizioni del 2001, Iturralde conferma che quelle strutture erano sicuramente fuori dell’acqua in passato e che, non essendoci spiegazioni geologiche diverse in merito alla loro composizione, forma e disposizione, potrebbero essere state perlomeno modificate da un intervento umano.
A questo punto, l’unico appiglio tangibile a cui un geologo con dottorato di ricerca può “aggrapparsi” per dare una spiegazione al misterioso ritrovamento è il “fattore tempo”, che come ben sappiamo, è spesso l’unica “ancora di salvezza” che rimane a certi studiosi per tentare di non andare alla deriva tra le onde dei misteri dell’esistenza umana e di ciò che la circonda. Il fenomeno della subsidenza, ovvero il movimento (in questo caso di sprofondamento) delle placche tettoniche, avrebbe lentamente fatto sprofondare l’area di 20 chilometri di lato che ospita i monumenti megalitici fino a portare il tutto a 700 metri sotto l’oceano. Oltre però a chiederci come mai la zona non si sia nemmeno leggermente deformata o danneggiata a causa di questo cataclismico movimento, sorge spontanea la domanda: ma in quanto tempo è avvenuto questo ipotetico sprofondamento? “Più o meno, il fondale oceanico può sprofondare velocemente al ritmo di 16 millimetri l’anno” conferma il dott. Iturralde.
Velocemente al ritmo di 16 millimetri l’anno? Quindi, se la matematica non è un’opinione, al ritmo di subsidenza più veloce mai misurato, il sito si sarebbe trovato fuori dell’acqua all’incirca 50.000 anni fa! In certi casi, rifiutando le spiegazioni più semplici, si finisce con il complicarsi la vita. L’archeologia ufficiale infatti si rifiuta di dover rivedere la teoria secondo la quale, nel bel mezzo del paleolitico medio, l’homo sapiens “neandertaliano” aveva da poco incominciato ad effettuare le prime sepolture e ad insediarsi in ambienti ostili; figuriamoci accettare l’esistenza di esseri in grado di costruire templi megalitici di granito dalle forme geometriche a migliaia di chilometri di distanza dal germanico cugino neandertaliano! Michael Faught, professore di antropologia all’università statale della Florida e specialista in archeologia sottomarina, in relazione a questo ritrovamento afferma che “…sarebbe veramente avanzato per qualunque cosa osservabile nel nuovo mondo. Le strutture sono fuori dal tempo a dallo spazio”. Quindi, piuttosto di considerare l’ipotesi che le rovine siano state effettivamente sommerse dall’acqua nell’esatto punto in cui si trovano e che quindi in un tempo non troppo lontano il livello del mare era di circa 700 metri più basso di quello odierno, si nega l’evidenza dei fatti “misurando” la possibile età del monumento tramite l’unico “metro” accettato dalla geologia, che però si rivela palesemente non adatto.
Una spettacolare elaborazione 3D del fondale attorno al sito (identificato con il nome “Mega”): Iturralde conferma che le “…strutture non sono associate a faglie, fratture o rotture del versante [oceanico]”.
Sulle pagine internet ufficiali relative alle sue ricerche sulle rovine sommerse di Cuba, Iturralde considera le tre seguenti ipotesi relative all’origine di tali strutture:
1) origine naturale 2) create da esseri intelligenti 3) strutture naturali trasformate da esseri intelligenti
Relativamente alla prima ipotesi però, è costretto ad ammettere che “…i dati ottenuti non supportano completamente…” questa versione, che comunque “…non dovrebbe essere scartata, perché Madre Natura è in grado di creare strutture inimmaginabili…”.
Una frase che non denota certo il più scientifico degli approcci.
Per quanto riguarda le altre due ipotesi, gli ostacoli principali sono l’età presunta del sito di 50.000 anni e il fatto che l’ipotesi di un intervento umano, “…indipendentemente da quanto attrattiva ed affascinante possa essere…non dovrebbe essere accettata finché non avremo dirette evidenze dell’azione di esseri intelligenti…”.
Dirette evidenze? Sono state trovate?
Le evidenze dirette che forse mancavano ad Iturralde ed al gruppo di ricercatori e studiosi cubani non tardarono a venire fuori. In un’intervista della famosa giornalista Linda Moulton-Howe apparsa sul suo sito www.earthfiles.com, i coniugi Paul Weinzweig e Paulina Zelitsky in persona rivelano un ulteriore sviluppo delle ricerche con i ROV che mette definitivamente una “croce” sull’ipotesi dell’origine naturale delle strutture: un video che riporta chiaramente, nonostante la fitta presenza di detriti e plankton, la presenza di iscrizioni sui megaliti in diversi punti. Queste rivelano, in certi casi, caratteristiche comuni e simili a quelle rinvenute nelle miniere cubane e nei siti messicani, come i simboli della croce centro-americana (una sorta di croce formata da due ellissi sottili); in altri casi, similitudini con la simbologia piramidale e geroglifica sudamericana, rivelando quindi un ovvia continuità sia dal punto di vista geografico che da quello socio-culturale con le vicine civiltà centro e sud americane, sebbene possedendo caratteristiche che le fanno supporre essere più antiche (come se fossero state incise da individui precursori di quelle civiltà).
Al momento dell’intervista (metà del 2001), le iscrizioni erano in corso di studio da parte del dott. Gabrino la Rosa; purtroppo non è più stato possibile reperire informazioni e pareri scientifici su questa scoperta.
Al di fuori di qualche sporadico servizio televisivo (alcuni dei quali accusati addirittura di utilizzare immagini di repertorio invece di quelle originali), inspiegabilmente le strutture sommerse di Cuba sono risultate sconosciute alla stragrande maggioranza degli ambienti scientifici e culturali, nonché alla gente comune (in Italia un notiziario di “Rete 4” ha trasmesso in breve la notizia il 19 dicembre 2001 ma praticamente nessuno se ne ricorda).
Evidentemente, chi è a conoscenza dei fatti e degli ultimi sviluppi della vicenda, o non ha i mezzi per divulgare una tale scoperta (cosa che succede molto spesso) o aspetta ulteriori conferme (manifestando forse uno scetticismo eccessivo), conferme che però risultano purtroppo sempre più difficili da reperire anche, ma non solo, a causa dell’elevato costo delle missioni esplorative e dei i noti problemi politici con il governo cubano.
Questa posizione di stallo sembrerebbe essersi sbloccata al termine del 2004 quando il giornale messicano “Milenio”, nel numero del 6 novembre 2004, pubblicò una notizia che agli occhi di un normale lettore poteva apparire come la solita news dal mondo dell’archeologia. La notizia diceva che, in data 7 ottobre 2004, un gruppo internazionale di archeologi era partito dal Messico con una nave adeguatamente equipaggiata per continuare le ricerche di una città sommersa al largo di Cuba.
Dopo 25 giorni di lavoro, interrotti per problemi tecnici dovuti alla visibilità sei volte più bassa del previsto, il team di scienziati aveva fatto ritorno con un ‘bottino’ molto interessante: precise risonanze del sonar che rilevano una struttura piramidale di 35 metri e, grazie all’utilizzo di un mini-sottomarino chiamato “Deep Worker”, fotografie della struttura scattate “...dalla distanza variabile tra l’uno e i tre metri, non riuscendo a farlo in modo che venisse resa correttamente la prospettiva delle strutture scoperte...”. Non solo risonanze e foto, ma anche pezzi di roccia con fossili di piccoli animali da superficie e resti di polveri vulcaniche (anche queste che si formano solo in superficie). Neanche a dirlo, la National Geographic Society si è già “assicurata” un esclusivo articolo con la Zelitsky.
Tenendo conto anche di questi ultimi sviluppi della vicenda, quindi, un’analisi obiettiva di tutti i fatti e di tutta la documentazione finora pubblicata non può che portare alle seguenti conclusioni:
1) le strutture sono opera dell’uomo, data la loro complessità, la loro dimensione, il tipo di materiale (granito), la presenza di iscrizioni, di fossili organici e le caratteristiche del sito che le ospita (ottimale per edificare monumenti)
2) le caratteristiche di continuità delle strutture, delle iscrizioni nel contesto geografico, urbanistico e socio-culturale con le civiltà centro e sud americane indicano che al tempo della nascita di quelle civiltà, o perlomeno al tempo dei primi insediamenti che le originarono, la zona era fuori dall’acqua come lo era il Sud America, il Messico e la penisola dello Yucatan e quindi, su scala globale, il livello del mare era molto più basso di quello attuale
Nessun fenomeno di subsidenza (che peraltro sarebbe risultato distruttivo ed avrebbe con tutta probabilità cancellato ogni traccia delle strutture) avrebbe potuto far scendere l’area a quelle profondità. Perché, allora, tutta quell’acqua ad occultare nel profondo del mare il bianco granito delle rovine? Potrebbero esserci collegamenti con le innumerevoli leggende relative al biblico Diluvio Universale che sconvolse il nostro pianeta diverse migliaia di anni fa?
Una cosa è certa: le peculiarità di questo affascinante mistero, nonché le forti contraddizioni da esse derivanti, difficilmente consentiranno una soluzione dell’enigma attraverso i consueti ricorsi ad ipotetiche cause naturali verificatesi nel lontanissimo passato, che troppo spesso vengono semplicisticamente invocate e da tutti accolte quasi con fede cieca.
Senza voler entrare nel campo della teologia, dell’esegesi biblica o della filosofia, quindi, non è certo da visionari, mitomani o irragionevoli ammettere che le rovine sommerse di Cuba abbiano potenzialità che potrebbero obbligare a riscrivere la storia delle civiltà dell’uomo, se non addirittura contribuire a chiarire i misteri concernenti la sua origine. Per concludere, vorrei riportare quello che Robert Jastrow ebbe a scrivere perché particolarmente calzante a conclusione delle considerazioni fatte finora, ovvero che “...per lo scienziato che ha vissuto fidando nel potere della ragione, la storia finisce come un incubo. Egli ha scalato le montagne dell’ignoranza; è giunto al punto di conquistare il picco più alto quando, nel raggiungere l’ultima roccia, viene salutato da un gruppo di teologi che si trovavano lì seduti ormai da secoli”.
Articolo di Carlo Alberto Cossano - ricercatore.
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Collegamenti esterni
http://www.ansuitalia.it/Sito/index.php?mod=read&id=1279880919
http://www.usac.it/articoli/MEGA%20ROVINE%20SOMMERSE%20A%20CUBA.htm