Lucrezio Caro Tito
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Lucrezio
Tito Lucrezio Caro (in latino Titus Lucretius Carus; Roma o Campania, 98 a.C. – Roma, 55 a.C.) è stato un poeta e filosofo latino.
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Biografia
Della vita di Lucrezio ci è ignoto quasi tutto: egli non compare mai sulla scena politica romana né sembra esistere negli scritti dei contemporanei in cui non viene mai citato, eccezion fatta per una lettera di Cicerone (Ad familiares), dove il celebre oratore accenna all'edizione postuma del poema di Lucrezio, che egli starebbe curando. Un'altra fonte che lo cita è San Girolamo nel suo Chronicon, in cui ci dice che circa nel 99 a.C. T.Lucretius poeta nascitur, postquam a poculo amatorio in furorem versus et per intervalla insaniae aliquot libros conscripsisset, quem Cicero post emendavit, propria manu se interfecit aetatis anno suae XLIII ("nasce il poeta T. Lucrezio, che dopo essere impazzito per un filtro d'amore e aver scritto alcuni libri [del poema?] negli intervalli della follia, che Cicerone pubblicò postumi, si suicidò a quarantadue anni"); tale dato non concorda tuttavia con quanto affermato da Elio Donato (IV d.C.) ,maestro di San Gerolamo, secondo il quale Lucrezio sarebbe morto quando Virgilio (nato nel 70 a.C.) indossò a 15 anni la toga virile, nell'anno in cui erano consoli per la seconda volta Crasso e Pompeo. Questo dato ha fatto propendere a credere che Lucrezio nacque nel 98 a.C. per poi morire nel 55 a.C., all'età di quarantaquattro anni. Queste vengono comunemente considerate le uniche notizie biografiche tramandate direttamente dall'antichità. Ignoto risulta anche il luogo di nascita, che tuttavia taluni hanno creduto essere la Campania e più precisamente Pompei od Ercolano per la presenza di un Giardino Epicureo in quest'ultima città, e la condizione sociale, sebbene i tria nomina e il suo anelito pacifista facciano credere che potesse essere di nascita aristocratica. Neppure la sua militanza politica sembra essere ricostruibile: il desiderio di pace accennato prima non sembra affatto ricordare il drammatico rancore dell'aristocratico (per altro stoico) che vede sgretolarsi la Repubblica e la Libertà ma il desiderio dell'amico epicureo, che vede nella pace e il benessere di tutti la possibilità di poter fare accoliti e viver serenamente.
Tale era, del resto, il suo desiderio di pace da auspicare alla fine del proemio della sua opera un "placida pace" per i Romani. Questo anelito così forte alla pace è peraltro riscontrabile non solo in Lucrezio, ma anche in Catullo, Sallustio, Cicerone, Catone l'Uticense e perfino in Cesare: esso rappresenta il desiderio di un'intera società dilaniata da un secolo di guerre civili e lotte intestine.
La scomodità di Lucrezio
Lucrezio, per il periodo in cui è vissuto, è stato un personaggio scomodo: gli ideali epicurei di cui era profondamente intriso corrodevano le basi del potere di una Roma alla vigilia della congiura di Catilina. Per questo motivo su di lui si abbatté inevitabilmente una "damnatio memoriae", una vera e propria congiura del silenzio, che mise in atto una consapevole distorsione della realtà. In un'epoca di tensioni repubblicane, infatti, isolarsi dalla realtà politica nell'hortus (greco "κῆπος") epicureo significava estraniarsi dal mondo della polis e uscire di conseguenza anche dalla sfera d'influenza del potere.
La presunta pazzia
La natura poetica del De rerum natura fa sì che Lucrezio col suo pessimismo esistenziale avanzi profezie apocalittiche, visioni quasi allucinate, critiche e ambigue espressioni, che accompagnano il poema. È chiara però la strumentalizzazione fatta da teologi cristiani come San Girolamo ed altri, specialmente teologi cattolici contemporanei, per farne un ateo psicotico in preda alle forze del male. Appoggiandosi impropriamente alla psicoanalisi qualcuno ha sostenuto che in certi bruschi cambiamenti di immagine e di pensiero ci fossero i sintomi di una pazzia delirante o di problemi di ordine psichico.
La pazzia di Lucrezio è con tutta evidenza una mistificazione di teologi cristiani in cattiva fede per evitare che il più pericoloso dei poeti atei (anche se Lucrezio non era ateo, bensì credeva nell'esistenza degli dei, ma, sulla base della filosofia epicurea, secondo lui gli dei non intervenivano negativamente nella vita dell'uomo in quanto esistevano in una dimensione separata da quella dell'uomo. Può essere quindi considerato ateo solo rispetto alla religione cristiana, poiché credeva in varie divinità e non nel Dio cristiano) potesse far proseliti, così come la presunta morte per suicidio sarebbe stato l'esito di un modo di pensare perverso, che travia chi lo segue. L'epilessia poi, viene avanzata sulla base dell'arcaica credenza che il poeta fosse sempre un invasato; elemento quest'ultimo da collegare alla credenza che gli epilettici fossero sacri ad Apollo e da lui ispirati nelle loro creazioni.
Comunque gli scrittori cristiani Arnobio e Lattanzio affermarono che egli non fosse pazzo e che non si fosse ucciso. L'ipotesi della follia e del suicidio attestata dal Chronicon di San Gerolamo si fondava su infondate illazioni di Svetonio. Potrebbe anche esserci stata una confusione dovuta all'abbreviazione Luc., impiegata indifferentemente nei codici latini per indicare i nomi di Lucillius, Lucullus e Lucretius. Plutarco scrisse infatti di un certo Licinio Lucullo, politico, generale e cultore dei piaceri, che morì dopo essere impazzito a causa di un filtro d'amore. L'errore di interpretazione dell'abbreviazione Luc. potrebbe così aver permesso lo scambio dei due personaggi.
Il progetto letterario
A causa dell'impossibilità di ricostruire i momenti salienti della sua vita, dunque, il progetto letterario che egli volle esprimere è ricostruibile interamente solo dalla sua opera poetica, considerata tra le più vigorose d'ogni età. In una Roma sull'orlo del collasso delle guerre civili e schiacciata dal suo stesso peso politico, impregnata di stoicismo e di religione, Lucrezio scopre il nemico della pace tanto desiderata: quello stesso stoicismo e quella religione che reggono Roma. È l'epicureismo a convincere Lucrezio del traviamento romano: la cagione delle sofferenze patite in quei tristi tempi, è nel non aver accettato la filosofia epicurea, che, secondo Lucrezio, è il farmaco che salverà Roma dalla catastrofe.
La rivoluzione lucreziana
Egli dunque si prospettava di rivoluzionare il cammino di Roma, riportandolo all'epicureismo che aveva declinato in favore dello stoicismo. La prima cosa da distruggere era la convinzione provvidenzialistica stoica e più propriamente romana: non c'era un dovere romano di civilizzare "l'orbe terrifero e de le acque", come dirà Virgilio ad un Enea che parla alla Sibilla Cumana; non c'è un intelletto seminale in ognuno di noi che è parte integrante del Divino e che farà ritornare tutto attraverso i tempi; ma un mondo che non è unico nell'universo, che peraltro è infinito, anzi esso stesso è uno dei possibili mondi tutti esistenti o che esisteranno. Non c'è quindi nessun fine provvidenziale di Roma, essa è una Grande fra le Grandi, ed un giorno perirà nel suo tempo. La religione, considerata come Instrumentum regni, deve non essere distrutta, ma integrata: non c'è preghiera che schiuda le fauci di una tempesta, giacché essa è regolata da leggi fisiche e gli dei, seppur esistenti e anche loro composti da atomi così sottili che ne assicurano l'immortalità, non si curano del mondo ne' lo reggono; ma la religione deve essere inglobata nella scoperta e nello studio della natura, che rasserena l'animo e fa comprendere la vera natura delle cose: infatti l'unico principio divino che regge il mondo è la Divina Voluptas: il piacere, la vita stessa intesa come animazione regge l'universo, ed è l'unica cosa in grado di fermare lo sfacelo che sta portando Roma alla fine: Marte, ovvero la Guerra. Proprio per questo, egli elogia Atene, creatrice di quegli intelletti più grandi che hanno illuminato la natura e quindi l'uomo stesso, ed in ultima istanza Epicuro, sole invitto della conoscenza rasserenatrice. Non solo, egli stesso si sente quasi un poeta rasserenatore delle tempeste umane e proprio per questo si sente profondamente affine ai poeti delle origini, il cui luogo principe è in Empedocle (secondo infatti per elogi solo a Epicuro) ma con una sola grande differenza: egli non è portatore di una verità divina fra le umane genti, ma di una verità affatto umana, universale e per tutti, che attecchirà ben presto per la salvezza di Roma.
Il destinatario e i destinatari
Come detto sopra, il dedicatario è la Claris Memmiadis Propago, ovvero il rampollo della famiglia dei Memmi, che solitamente si fa indicare con Gaio Memmio. Più in generale, si può dire che il destinatario che l'autore si prefigge di conquistare è proprio il giovane aperto e pronto ad ogni esperienza che un giorno prenderà il posto dei politici e attuerà quella rivoluzione propugnata con così tanto fervore da Lucrezio. Ma, almeno con Memmio, egli fallì: cresciutosi divenne un dissoluto, fraintendendo il significato di piacere catastematico epicureo, e fu allontanato dal Senato Probi Causa, ovvero per immoralità. Dopo di ciò si riparò in Grecia, dove scrisse poesie licenziose, e dove ce lo cita anche Cicerone (nelle Ad Familiares), pronto a voler distruggere la casa e il giardino dove proprio Epicuro risiedette, suscitando lo sdegno degli epicurei che fecero istanza a Cicerone di intervenire per impedirglielo, cosa in cui Cicerone fallirà.
Lo stile
In un simile progetto Lucrezio scelse di doversi rifare ad un modello di stile arcaico, che vedeva in Livio Andronico, ma soprattutto in Ennio e in Pacuvio i modelli emuli, per motivi fra loro quanto meno vari: l'egestas linguae(povertà della lingua),lo vede costretto a dover arrangiare le lacune terminologiche e tecnicistiche con l'arcaismo, ancora che proprio Lucrezio, insieme a Cicerone, sia uno dei fondatori del lessico astratto e filosofico latino, e a colmare e ancor meglio comprendere l'oscurità del filosofo con la mielosa luce della poesia. Discendendo pìù in profondità nelle anguste gole del poema, si notano anche altri problemi cui dovette far fronte: primo fra tutti, come tradurre parole di pregnanza filosofica in latino, che ancora non aveva termini confacenti. Finché potette, egli evitò la semplice translitterazione (ad es. "Atomus" per Ατομος) e preferì invece usare altri termini presenti già nella sua lingua magari dandogli altra accezione oppure (come mostrato anche sopra) creando neologismi. Ed è proprio grazie all'arcaismo che Lucrezio riesce a rendere possibile tutto questo: infatti era proprio dello stile arcaico il neologismo munificenza ed anche un certo uso (convulso a detta di antichi e moderni) delle figure di suono quali allitterazioni, consonanze, assonanze e omoteluti. Molto importante è anche il fatto che Lucrezio non si limitò a trasmettere il messaggio di Epicuro con un arido scritto filosofico,ma lo fece attraverso un poema che,a differenza del rigoroso linguaggio razionale della filosofia,parla per squarci imaginifici.
Il De Rerum Natura
Si tratta di un poema didascalico, di natura scientifica-filosofica, in esametri suddiviso in sei libri, dedicato a Gaio Memmio.
Riproduce il modello prosastico e filosofico epicureo e la struttura del poema Περὶ φύσεως di Empedocle (anche un'opera di Epicuro aveva il medesimo titolo).
Secondo i filologi vi sono corrispondenze e simmetrie interne che corrisponderebbero ad un gusto alessandrino. L'opera infatti è suddivisa in tre diadi, che hanno tutte un inizio solare ed una fine tragica. Ogni diade comincia con un inno ad Epicuro e l'ultimo libro termina con un altro inno ad Epicuro, mentre il secondo libro inizia con un inno alla scienza e il terzo libro con l'esposizione dell'estetica di Lucrezio.
Essendo un poema didascalico, ha come modello Esiodo e quindi anche Empedocle, che aveva preso il modello esiodeo come massimo strumento per l'insegnamento della filosofia. Altri modelli potrebbero essere i poeti ellenistici Arato e Nicandro di Colofone, che usavano il poema didascalico come sfoggio di erudizione letteraria.
In questa opera, Lucrezio speculava apertamente della possibilità di vita su altri mondi, divenendo un ufologo ante-litteram:
- « Pertanto dobbiamo capire che esistono altri mondi in altre parti dell'Universo, con tipi differenti di uomini e di animali. »
Critiche
Molti critici hanno affermato che il "De Rerum Natura" sia un libro incompiuto. Se infatti lo scopo di Lucrezio era quello di trasmettere un'etica,egli non ne ostentò mai direttamente le caratteristiche. Questa critica mette in luce,però,una delle più grandi abilità di Lucrezio di trasmettere,attraverso l'analisi del cosmo,un'etica implicita che non consisteva certo nel confezionare valori predefiniti,ma nel fornire ,invece, gli strumenti culturali per decidere liberamente in cosa credere.
La filosofia
Il poema ha tre argomenti principali: La lacerante antinomia fra ratio e religio La ratio è vista da Lucrezio come quella chiarità folgorante della verità «che squarcia le tenebre dell'oscurità», mentre la religio è ottundimento gnoseologico e cieca ignoranza.
Lucrezio afferma che sono evidenti le nefaste conseguenze della religione e adduce come esempio il caso di Ifigenia, dicendo poi che il mito è una rappresentazione falsata della realtà (cfr. Evemerismo). La religione è perciò la causa principale dell'ignoranza e dell'infelicità degli uomini.
Lucrezio riprende i temi principali della dottrina epicurea, che sono: l'aggregazione atomistica e la 'parenklisis (che egli ribattezza clinamen, la liberazione dalla paura della morte, la spiegazione dei fenomeni naturali in termini meramente fisici e biologici. Egli opera un completamento di essa in senso naturalistico ed esistenzialistico, introducendo un elemento di pessimismo, assente in Epicuro, probabilmente da attribuirsi a un suo stato di depressione di cui era affetto.
Da un punto di vista ontologico, secondo Lucrezio, tutte le specie viventi (animali e vegetali) sono state "partorite" dalla Terra grazie al calore e all'umidità originari. Ma egli avanza anche un nuovo criterio evoluzionistico: le specie così prodotte sono infatti mutate nel corso del tempo, perché quelle malformate si sono estinte, mentre quelle dotate degli organi necessari alla conservazione della vita sono riuscite a riprodursi [1]. Tale concezione materialista, antiprovvidenzialista e storica della natura sarà ereditata e rielaborata da molti pensatori materialisti dell'età moderna, in particolare Diderot e La Mettrie.
L'uomo e il progresso
Lucrezio nega ogni sorta di creazione, di provvidenza e di beatitudine originaria e afferma che l'uomo si è affrancato dalla condizione di bisogno tramite la produzione di tecniche, che sono trasposizioni della natura.
Per Lucrezio, però, il progresso non è positivo a priori, ma solo finché libera l'uomo dall'oppressione. Se è invece fonte di degradazione morale, lo condanna duramente.
Note
1^ De rerum natura, V, vv. 784-859.
Opere
Lucrezio, La natura delle cose, a cura G.B.Cont-L.Canali-I.Dionigi, Milano, Rizzoli 2000
Bibliografia
- V.E Alfieri, Lucrezio, Firenze 1929
- G.Bonelli, I motivi profondi della poesia lucreziana, Bruxelles 1984.
- P.Boyancé, Lucrezio e l’epicureismo, Brescia 1970
- L Canali, Lucrezio poeta della ragione, Roma 1948
- H. Jones, La tradizione epicurea – ECIG – Genova 1999
- C.Salemme Strutture semiotiche dl De rerum natura, Napoli 1980
- C.Tamagnone, Lucrezio, in: Ateismo filosofico nel mondo antico, cap.V, Firenze, Clinamen 2005
- O.Tescari, Lucretiana, Torino 1935
Voci correlate
Collegamenti esterni
- De Rerum Natura: testo con concordanze e liste di frequenza
- Il testo di De Rerum Natura in latino tradotto in italiano
- Vita, contesto culturale e opere di Lucrezio su ArcadiA Club
- La poesia filosofica di Lucrezio
- Inno a Venere traduzione di Mario Rapisardi Dal De rerum natura
- Eternità del mondo traduzione di Mario Rapisardi Dal De rerum natura